venerdì 25 novembre 2011

Poesia ed editoria: un esempio di contratto standard

di Antonio Lillo

Vorrei entrare nel dibattito proposto da questo blog, portando la mia esperienza di poeta pubblicato. Non è un segreto, infatti, che il settore editoriale in cui l’autore è maggiormente vessato dall’editore è proprio quello della poesia. Ignorato dalla grandi case editrici per il suo scarso appeal commerciale, è lasciato alla mercé di piccoli editori a pagamento che sui sogni di tanti aspiranti poeti hanno costruito un impero del lucro. Scrivo questo senza alcun astio particolare e senza voler nulla contestare alla mia casa editrice, che non fa né più né meno delle altre.

Nella mia vita ho pubblicato una sola raccolta. Sono arrivato alla mia attuale casa editrice alla fine del 2007, una casa editrice piccola ma prestigiosa. Ho presentato loro un manoscritto e mi hanno risposto dopo alcuni mesi proponendomi la pubblicazione e inviandomi un modello di contratto. Il contratto prevedeva che l’editore stampasse 300 copie del mio libro in prima edizione; avrebbe detenuto i diritti per 5 anni a partire dalla data di pubblicazione; mi avrebbe corrisposto il 5% del prezzo di copertina ma solo dopo l’800ima copia venduta; mi avrebbe informato delle vendite con rendicontazione annuale ma solo dopo l’800ima copia venduta; mi sarebbero spettate 25 copie del libro oltre alla possibilità di inviarne altre dieci a critici o giornalisti, da me segnalati, per eventuali recensioni; se, in seguito, avessi voluto acquistare il libro, avrei avuto diritto a uno sconto del 35% sul prezzo di copertina; una volta scaduto il contratto, avrei potuto acquistare eventuali copie invendute prima che andassero al macero; infine, qualsiasi evento o presentazione realizzati per promuovere il mio libro sarebbero stati a mie spese. L’editore si impegnava a fornirmi i necessari servizi di segreteria, editing, codice ISBN, diffusione e promozione. Il tutto per 1400 euro, prendere o lasciare.
Già dalla prima lettura, il contratto non mi convinceva: mi sembrava una sorta di capestro. Così, nel dubbio, chiesi consiglio a persone che lavoravano nel campo dell’editoria. Mi risposero che quello era un contratto standard, che per la poesia si paga sempre qualcosa perché non vende (persino Montale si pagava le pubblicazioni!) e che la casa editrice in questione era piccola ma rinomata, quindi ci avrei guadagnato in prestigio. Insomma, il dubbio restava ma la voglia di pubblicare era più forte e alla fine ho firmato.
Alle mie conclusioni sono arrivato poi, col tempo. La “fregatura” di un contratto così, ho pensato, sta nel fatto che non puoi applicarlo a un modello standard, vale a dire ai contratti adottati per i libri di narrativa. Narrativa e poesia sono mondi diversi, con numeri diversi: un libro di poesia che vende più di 500 copie viene considerato già un successo, figurarsi se, per uno sconosciuto, è possibile arrivare a venderne 800.
Da allora sono passati due anni e io non ho mai visto né soldi né rendicontazione annuale. Non accuso l’editore di comportamento scorretto, il contratto era chiaro e io sono sicuro che il mio volume non ha venduto più di 100 copie. Non mi pento dell’investimento, un libro edito è sempre un buon biglietto da visita per il mondo dei salotti della scrittura, così saturo di sedicenti poeti che risulta difficile persino farsi avanti a spallate. Sono meno convinto, però, di aver fatto bene a pubblicare a quelle condizioni, a non lottare per i miei diritti. In fondo stavo pagando un servizio e non chiedendo un favore. Scrivere poesie, scriverle a un livello alto, è un lavoro a tutti gli effetti: occorre tempo, concentrazione e studio, un continuo labor limae sui versi e spesso, per arrivare a realizzare un’opera con tutti i crismi, passano anni. Perdere tre, cinque o dieci anni della propria vita per mettere insieme una silloge che regga alla prova del tempo e poi presentarla a una casa editrice che per pubblicartela ti chiede, oltre a tutto quello che hai già dato di tuo all’opera, del denaro e nemmeno poco, non solo è ingiusto, è immorale. Sembra quasi che non siano loro che stiano comprando il tuo lavoro perché ci credono ma tu il loro marchio per solleticare la tua vanità, con l’occasione di un minimo di visibilità. E non è necessariamente così, a muovere un autore, oltre alla vanità, ci sono anche motivazioni più profonde.
Se il libro vendesse, se arrivasse al pubblico, tutto questo avrebbe almeno un senso. Ma i libri di poesia non vendono, lo sanno tutti. Uno dei motivi per cui non vendono è la saturazione del mercato da parte di piccoli editori, onesti e disperati, oppure truffaldini, che prosperano all’ombra dei colossi e pubblicano qualsiasi cosa, dal ragazzino talentuoso alla casalinga frustrata, senza fare alcuna selezione. Ne viene fuori un marasma talmente grande da fare torto, indistintamente, a tutti: ai nuovi poeti che faticano a emergere, soprattutto se manca loro la sfrontatezza necessaria, così come a chi poeta non è ma ambisce a esserlo.
Non tutti hanno il necessario senso autocritico. Invece di ingannare gli autori pubblicando a costi esorbitanti volumi che rimarranno invenduti nei magazzini fino all’ora del macero, sarebbe il caso di cominciare a dire loro la verità: che non c’è mercato, che forse la loro opera non verrà letta da nessuno e quindi si parla sempre di rischio, ma per l’autore, non certo per l’editore. E, quando serve, che l’opera non vale poi così tanto e, se hanno proprio voglia di stamparla per donarla ai propri amici, cosa peraltro nobilissima, ci sono anche delle piccole tipografie che, per un terzo di quello che chiede una casa editrice minore, possono realizzare dei prodotti dignitosi.


Antonio Lillo